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La notizia della richiesta da parte dell’FBI americana ad Apple di sbloccare lo smartphone del terrorista di San Bernardino l’avrete sentita e risentita. Il rifiuto di Apple di non fornire aiuto ed assistenza alle autorità americane sicuramente ha scaturito un caso giudiziario e mediatico e tutti ne hanno parlato. Il 22 marzo (il giorno dopo del keynote di Apple) si sarebbe dovuta tenere l’udienza in cui un giudice avrebbe deciso se obbligare o no la Apple allo “sblocco dello smartphone”.
Qualche ora prima dell’inizio dell’udienza, l’FBI ha presentato un’istanza di rinvio, sostenendo di aver trovato chi sarebbe in grado di accedere all’iPhone 5c dell’attentatore senza dover ricorrere all’aiuto di Apple.
Ma come? Non era inviolabile la sicurezza dell’iPhone?
Su siti specialistici sono trapelate varie ipotesi. La prima è stata fatta dal New York Times secondo cui ad aiutare l’FBI sarebbero degli hacker che hanno scoperto una vulnerabilità nel sistema operativo di Cupertino. Secondo la testata, la soluzione sarebbe stata fornita all’Fbi perché Apple a differenza degli altri big della tecnologia come Google e Microsoft non offre ricompense a chi scopre falle di sicurezza nei suoi prodotti.
Secondo altre fonti i federali americano sarebbero in contatto con Cellebrite, azienda israeliana che opera in due settori: da una parte la gestione commerciale dei dispositivi mobili aziendali, dall’altra l’analisi forense degli smartphone e l’estrazione dati.
L’Fbi in ogni caso ha tempo fino al 5 aprile per testare il sistema e, secondo quanto riportato dal Guardian, i test finora condotti su altri iPhone hanno consentito l’accesso agli smartphone protetti da password. Il metodo, che sembra dunque funzionare, è stato creato da una “fonte esterna” che ha deciso di fornirlo alle autorità Usa e non ad Apple, da cui non avrebbe ricevuto un pagamento. Questo fa pensare a una struttura più che a singoli elementi.
Potrebbe essere anche un bluff, non credete?